I focus dell’helpdesk I rider: la forma moderna di un lavoro senza garanzie
Negli ultimi anni, la figura del rider è diventata emblematica di un modello di lavoro che si presenta come flessibile e innovativo, ma che nella realtà quotidiana ripropone forme antiche di sfruttamento, rese ancora più insidiose dalla mediazione tecnologica. A cavallo tra subordinazione e autonomia, tra libertà e bisogno, i rider incarnano una contraddizione profonda del nostro tempo: il lavoro digitale che promette autonomia, ma produce dipendenza.
Dietro l’apparente libertà di organizzare il proprio tempo, molti lavoratori raccontano una quotidianità scandita da un sistema di incentivi e penalizzazioni, governato da algoritmi opachi che decidono tutto: dalla priorità di assegnazione delle consegne alla visibilità sulla piattaforma. Chi rifiuta o rallenta è penalizzato, escluso o declassato, senza possibilità di confronto né spiegazioni trasparenti. Un sistema che si regge su una forma di sorveglianza digitale costante, che monitora tempi di percorrenza, risposte alle notifiche, pause.
A tutto ciò si aggiungono forme di ricatto occupazionale più o meno esplicite. Il legame con la piattaforma è formalmente autonomo, ma di fatto molti rider dipendono completamente da quell’unica fonte di reddito. Alcuni raccontano di essere costretti ad accettare qualsiasi turno, anche notturno o nei giorni festivi, pur di non perdere il “punteggio” necessario per restare attivi.
Un altro elemento spesso sottovalutato è la frammentazione contrattuale. In Italia, a seconda della piattaforma e della città, i rider possono essere inquadrati come autonomi, collaboratori occasionali, dipendenti a tempo determinato o, più frequentemente, lavoratori “a partita IVA”. Questa varietà crea disparità di trattamento, incertezza giuridica e una sistematica difficoltà di rivendicare diritti minimi come ferie, malattia, maternità o sicurezza sul lavoro.
In molti contesti urbani, si osservano fenomeni di intermediazione illecita del lavoro: account delle piattaforme ceduti o affittati da soggetti terzi, che trattengono una percentuale del compenso o impongono condizioni ancora più vessatorie, in quello che è a tutti gli effetti un nuovo volto del caporalato digitale. I più colpiti sono spesso i lavoratori migranti, resi vulnerabili dal ricatto del permesso di soggiorno o dalla mancanza di alternative lavorative.
Anche le discriminazioni sono un problema crescente. Alcuni rider segnalano che l’algoritmo può penalizzare indirettamente chi non ha mezzi veloci, chi vive lontano dal centro città, chi ha difficoltà linguistiche. In molti casi, le stesse piattaforme impongono divise e comportamenti standardizzati che mirano a “normalizzare” il servizio, rendendo invisibili le soggettività e cancellando ogni possibilità di riconoscimento umano.
Infine, vi è un aspetto spesso trascurato: l’impatto psicologico di un lavoro instabile, isolato, ripetitivo, soggetto a valutazioni continue e impersonali. L’ansia da prestazione, la paura di essere disattivati, il senso di sostituibilità costante producono un clima di pressione continua che nulla ha a che fare con l’autonomia promessa.